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Il Nuovo Dittatore - Una distopia politica

In un'Italia impoverita, caotica e instabile, Giulio Marciani crede che la democrazia abbia fallito, e che l'unico modo per risolvere i problemi del Paese sia la creazione di una nuova dittatura, modellata sul neoautoritarismo di nazioni come la Russia, la Cina e Singapore. Egli costruirà uno Stato moderno e ricco, in cui i cittadini impareranno ad obbedire, e a rinunciare alla propria libertà in cambio del benessere. Nasce così un assolutismo illuminato, fatto di materialismo, paranoia, e compromessi morali. "Il nuovo dittatore" è un romanzo distopico sulla crisi della democrazia occidentale, e sulle possibilità del futuro.






***

Prologo


Con calma il Presidente si avvicinò ai prigionieri, le cui braccia e gambe erano incatenate al vecchio muro scrostato ed umido. Fissava lo sguardo sui loro volti impauriti, spossati da giorni di fame e privazioni, sudati, sudici, pallidi. Il terrore li faceva tremare come gatti infreddoliti, bagnati dalla pioggia. Li osservava con un’espressione dilettata, quasi come se vederli in quello stato gli desse piacere. 

Dentro di lui forse rimaneva un po’ della pietà e della dolcezza della gioventù. Ma nel corso di anni pieni di umiliazioni, soprusi e fallimenti, lui l’aveva, con perseveranza e pazienza, quasi del tutto rimossa. L’uomo che ha toccato il baratro della propria esistenza non ha più rispetto per sé stesso e, di conseguenza, non ne ha per il suo prossimo. 

Si fermò di fronte ad Umberto Savorgnan, il capo della Lega delle Libertà, il cui volto emaciato e il fisico osseo lo rendevano quasi irriconoscibile. Quante volte lo aveva visto in televisione e nei comizi, agitando le mani, puntando il dito verso le telecamere, insultando i suoi rivali, minacciando di fare la rivoluzione! Lo guardò dritto negli occhi e disse: 

“Volevi la dittatura? Amavi i dittatori stranieri? Ti facevi pagare da loro i viaggi, e non perdevi  occasione per fargli i complimenti? E dicevi che noi, in Italia, eravamo una dittatura?” Un lieve sorriso gli distorse le labbra. “Adesso capirai che cosa vuol dire dittatura.” 

Poi si diresse verso Alessia Benitoli, una donna che da anni faceva carriera vituperando tutti i suoi avversari politici. Il Presidente aveva avuto due incontri televisivi con Benitoli. Lei lo aveva offeso, lo aveva chiamato “mafioso”, si era alzata e gli si era seduta sulle gambe. Lui non sapeva cosa fare. Era consapevole di aver fatto una delle peggiori figuracce della storia politica del Paese. Tornato a casa, gli era venuto il mal di testa dalla rabbia che provava per quell’episodio. 

Gli italiani, lui pensava, erano incapaci di autogoverno. Litigiosi, proni alla teatralità, alla faida, incapaci di osservare le regole del decoro. Non che tutti fossero così. Ma coloro che lo erano, alzavano sempre la voce e si facevano notare più degli onesti i quali, timidi e tranquilli, subivano i soprusi in silenzio. Lui si identificava con i deboli, perché per quarant’anni era stato uno di loro. Deriso, attaccato, e dimenticato dai potenti. Desiderava l’autorità che gli era stata negata, e la voleva per potersi vendicare, per dare una lezione a chi aveva rovinato l’Italia. 

Gli occhi della Benitoli, un tempo fieri e bellicosi, erano supplichevoli e spaventati. 

“Dov’è finita la tua foga?” disse il Presidente. “Perché non mi insulti adesso? Tu e i tuoi amici volevate la dittatura? L’avete chiesta voi. Per anni avete attaccato la democrazia, avete detto oscenità, avete calpestato i diritti dei cittadini. E adesso che ce l’avete, la dittatura, piangete perché si ritorce contro di voi. E spetta a me l’onere di farmi carico di questi peccati, di essere condannato dalle generazioni future, di essere odiato e temuto, per poter creare con la forza quello che voi, quando avevate la libertà, vi siete rifiutati di realizzare. Non piangete, perché le vostre lacrime non fanno che aumentare il mio disprezzo. E oggi, il mio disprezzo non è un sentimento di cui, come in passato, possiate ‘fregarvene’, come dicevate. Poiché io sono il vostro giudice e giuria, ed io deciderò la vostra punizione. Sarà un’esecuzione veloce? O uno spettacolo degno di un anfiteatro romano e di un rogo medievale? Vedendo le vostre lacrime da pusillanimi, penso che non ascolterò i consigli di chi mi dice che l’opinione pubblica si rivolterebbe contro di me se mostrassi troppa crudeltà. Forse è questo il momento giusto perché tutti comprendano che la musica è cambiata, e che non c’è più da scherzare. Si riparte da zero. 

“Bisogna educare il popolo, instillare in esso la paura dello Stato, il terrore della violenza, la sottomissione della disciplina, perché esso capisca il valore della libertà, e si ritempri, come un tempo, dal desiderio di lottare per ottenerla. Poiché un popolo che dà per scontata la libertà, come se fosse l’aria che respira, non è degno di averla. E se lascia che essa svanisca, si merita tutto ciò che la propria apatia ha causato.” 

Il Presidente fece un cenno con la mano ad uno dei suoi fedelissimi, che prontamente si avvicinò e si mise sull’attenti. 

“L’esecuzione avverrà domattina alle undici,” disse a voce alta il Presidente, affinché i prigionieri sentissero con chiarezza. 

“Una pallottola ciascuno. Poi portateli in campagna e fateli a pezzi. Lasciate che si riposino per bene stanotte. Domani dategli una buona colazione, cosicché abbiano la presenza di mente per comprendere ciò che gli accadrà.” 

Dopo aver dato gli ordini uscì dal sotterraneo. 

“Cosa scrivono i giornali esteri?” chiese al suo segretario. 

“Il New York Times titola: ‘In Italia torna il fascismo.’ Il Wall Street Journal scrive: ‘La fine della democrazia italiana.’ Lo Spiegel: ‘Cosa può fare l’Europa per fermare l'ascesa di Marciani?’ …” 

“Va bene, va bene, ho capito …” lo interruppe il Presidente. “Me l’aspettavo. Non importa. Sono tutti un branco di ipocriti. Quando l’economia italiana crescerà ancor di più, chiuderanno la bocca. Non vedi come fanno a gara per ingraziarsi la Russia e la Cina?”

***

Capitolo I


Memorie d’infanzia


Talvolta, nelle giornate più difficili, Giulio Marciani rimaneva per ore seduto, immobile, con lo sguardo rivolto verso la finestra, rimuginando dentro di sé le memorie della sua infanzia. I pomeriggi sdraiato sul divano davanti alla televisione, nell’ampio salotto, dove il nonno, quel grande uomo pelato dalle spalle larghe e le mani forti e rugose, fumava una sigaretta dopo l’altra e leggeva il giornale. Le ore trascorse sul balcone di casa a giocare. Le sere seduto coi genitori al bar, nella piazza del paese, sempre piena di gente, mangiando un panino con formaggio e prosciutto e bevendo una Coca-Cola col limone. 

Ma non erano le memorie felici quelle che più lo avevano segnato. Vi erano ricordi oscuri, dolorosi, di avvenimenti che lo avevano reso cosciente di come lui, bambino viziato dalla famiglia, fosse incapace di vivere nel mondo reale. 
Era il terzo giorno di scuola media. Accanto a lui era seduto Antonio, il bullo della classe, che aveva già diciassette anni, mentre tutti gli altri ne avevano dieci o undici. Aveva i capelli biondi, una faccia butterata e oleosa, e delle braccia possenti da adulto, ricoperte di tatuaggi. Di studiare Antonio non voleva saperne.

Andava a scuola ogni tanto, col solo scopo di tormentare i bambini più piccoli. E Giulio divenne la sua vittima preferita. Quel suo viso paffuto, dalle guance rosee, sembrava rappresentare tutto ciò che Antonio odiava: la debolezza, l’ingenuità, il privilegio. 

Gli lanciava in faccia gomme, matite e righelli, gli dava dei pizzicotti che lo facevano urlare. Tutti i compagni di classe ridevano. La maestra sapeva benissimo che cosa accadeva, ma invece di sgridare Antonio, di cui lei aveva paura, se la prendeva con Giulio. 

Un giorno Giulio tornò a casa in lacrime. Il nonno gli chiese che cosa fosse successo. Lui, piangendo, gli raccontò tutto. Il nonno, infuriato, il giorno dopo andò a scuola a parlare col preside, un suo vecchio amico. Per una settimana Antonio non si presentò. Ma un pomeriggio, all’uscita da scuola, Antonio stava nel cortile, fumando una sigaretta. 

Quando vide Giulio, gli si avventò addosso come un lupo affamato e lo trascinò nel campo sportivo dietro l’edificio. Una folla di ragazzini incuriositi e divertiti si radunò intorno ai due. 
“Sei andato a fare la spia?” chiese Antonio. “Tu lo sai che succede alle spie? Le spie sono le peggiori merde.” 
La frase che rimase impressa nella mente di Giulio più delle altre fu: “E adesso chi ti difende?” 

Antonio lo riempì di pugni e calci. Lo lasciò per terra, col sangue che gli colava sulla camicia, incapace di muoversi. Gli altri lo guardavano con il senso di terrore e sollievo di chi è felice di non essere vittima, ma sa di poterlo diventare. 

"Chi ti difende?" 




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